Da ragazzo avevo imparato a sviluppare le pellicole fotografiche in bianco e nero e a stampare le immagini contenute in esse. In epoca di fotografie digitali e di microchip, i vecchi rullini in gelatina fanno quasi tenerezza al pensiero. Eppure, quei giorni non sono lontanissimi nel tempo.
Mi impadronivo del bagno padronale di casa oscurando la finestra con un pesantissimo plaid scozzese, che in agosto metteva quasi orrore a maneggiarsi. Avevo una lampadina rossa attaccata all’estremità di un filo, che irradiava una luce debolissima e per certi versi un po’ ambigua. Mi muovevo nella stanza respirando quell’atmosfera onirica che sentivo soltanto mia. Le bacinelle da sistemare allineate secondo la sequenza prevista dai bagni acidi di sviluppo, risciacquo e fissaggio. L’orologio collocato in modo visibile, per non perdere il fondamentale conteggio dei secondi. L’ingranditore per le stampe, collocato precariamente sulla tavoletta della tazza.
Ben presto nel bagno si diffondeva l’odore penetrante delle soluzioni, che andava a mescolarsi con l’aria calda e via via più viziata. Erano ore magiche, che volavano via in un niente. Le immagini si svelavano sul negativo, arrotolato all’interno di un cilindro nero impermeabile alla luce. E quando, allo scadere del tempo, ne estraevo il prezioso rotolino brunito, era irresistibile la voglia di scorgere controluce il risultato sfidando il pallido rossore che regnava nella stanza. Così come altrettanto affascinante era scorgere l’immagine che di secondo in secondo si formava sulla carta porosa immersa nella bacinella. Sollevandola con le grosse pinze dall’estremità gommosa, ero un’ostetrica che estraeva il neonato dal grembo della madre.
Emozioni che terrò con me per sempre. La quintessenza della gioia di vivere, che mai come a quell’età è così pura, profonda, gratificante.
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