3.5.13

Castelli

Tolse la tovaglia cerata che proteggeva il tavolo di legno. Una piccola piega poteva essere insidiosa per l’equilibrio strutturale. La mamma sarebbe tornata entro un’ora, gli aveva detto, e lui aveva deciso di approfittarne per erigere il più alto castello di carte da gioco che fosse mai stato realizzato.
Entrò nella sala da pranzo e da un antico cassettone estrasse quattro mazzi di carte. Erano quelle dei grandi, rosse e nere, consunte dalle interminabili partite serali dei genitori con gli amici. Meglio se un po’ rovinate: i bordi ispessiti ne avrebbero migliorato la stabilità. Tornò in cucina e si mise all’opera.
Disponendo le carte l’una perpendicolarmente all’altra, la struttura iniziò a prendere forma. Quando aveva visitato Parigi con i suoi genitori, la Tour Eiffel lo aveva particolarmente affascinato e in seguito ne aveva spesso immaginato i lavori di costruzione, che pezzo dopo pezzo, avevano dato forma ad un’arcata, a un piano, ad un fregio. E aveva sorriso al pensiero dello stupore dei visitatori che avevano potuto festeggiarne l’inaugurazione.
Le carte si appoggiavano le une alle altre. Paretine verticali inframezzate da montanti obliqui e da coperture simmetriche. Le piccole mani si muovevano con sapiente prudenza, appoggiando ogni carta con la leggerezza del posarsi di una farfalla su un fiore.
Un piano, due piani, tre piani. Arrivò un momento che la torre era troppo alta per lui. Con difficoltà avrebbe potuto aggiungere ulteriori piani. Salì allora su una sedia per una prospettiva da adulto. Ebbe così la possibilità di aggiungere altri quattro livelli. Spesso tratteneva il respiro quando una carta scivolava dalla sua posizione originaria, e trasaliva per la paura che ne urtasse un’altra a sua volta portante, rischiando di far venir giù tutto in un fragoroso crollo.
Infine completò l’opera, posizionando due carte appoggiate in verticale, l’una contro l’atra, a formare un tetto. Tutto sembrava reggere. Con delicatezza scese dalla sedia e l’allontanò dal tavolo spostandola nei pressi della finestra. Poi vi si sedette, rimanendo qualche minuto fermo in silenzio ad ammirare la sua opera, la sua Tour.
Fu la mamma che tornando a casa, nello spalancare la porta al vigore di una giornata ventosa, causò un improvviso turbinio di picche e fiori, di regine e di fanti, scatenando il più frusciante e colorato dei crolli. In un attimo la torre trasmutò in un variopinto tappeto plastificato, mentre il bambino assisteva attonito al nuovo panorama. Non ascoltò le scuse accorate della donna, ma si chinò in terra con pacata rassegnazione e, una volta ricostituiti i mazzi, riprese a posizionare con delicatezza e pazienza le carte secondo un criterio già sperimentato.

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