25.2.11

Un ricordo della Libia

Un’incredibile coincidenza ha voluto che mi recassi in Libia venti giorni prima che scoppiasse la violenta guerra civile che sta sgretolando il regime quarantennale del Colonnello Gheddafi.

Era la mia prima volta nel continente africano, appena un’ora e mezzo di volo. Eppure né una vacanza né un’occasione lavorativa mi avevano in precedenza spinto verso questa terra ancora così lontana dalla cultura dell’efficienza e del capitalismo, fortemente radicata in Europa, come negli Usa od ormai nell’estremo Oriente.

In Africa tutto deve ancora accadere. Anche quei Paesi che vantano uno sviluppo ed una ricchezza di rilievo, come il Sud Africa o l’Egitto o la stessa Libia, devono fare i conti con problematiche sociali, sanitarie, infrastrutturali altrove da tempo accantonate.

L’arrivo del volo a Tripoli è rapido, eppure svela un paesaggio lontano, estremamente lontano dal nostro. L’atrio è scarno. I controlli dei documenti e dei visti è attento e meticoloso. Non quello dei bagagli, che vengono fatti passare sotto i raggi senza particolare attenzione per oggetti metallici o personal computer. Ci diciamo che forse sono le bottiglie di vino e i liquori l’obiettivo dell’ispezione. Una bottiglia di vino può costarti sei mesi di prigionia in base alle vigenti leggi. Una bottiglia di vino sembra che sia venduta al mercato nero ad oltre cento euro. Ci si abitua a tutto, anche alle birre analcoliche.

Esci dall’aeroporto e ti abbaglia un misto di sole e di riflessi sabbiosi. Tutto è color ocra o celeste. L’aria è dolcissima, soprattutto se vieni dalla rigidità invernale del continente europeo. Gli occhi cercano idiomi familiari, ma non ve n’è traccia. Giganteschi cartelloni pubblicizzano la Coca Cola con caratteri indecifrabili. Qua e là la figura di Gheddafi campeggia dall’alto quale benedizione per il viaggiatore in arrivo o saluto per chi lascia il Paese. Non esistono cartelli in inglese o in altre lingue. Solo l’intuito ti può essere d’aiuto.

Mohammed, il tassista che ci è venuto a prendere, è un giovane ragazzo al servizio di un piccolo proprietario che gestisce due o tre taxi. Per 20 euro ti conduce a Tripoli e con molto orgoglio ti regala una bottiglietta d’acqua minerale come servizio bar per il viaggio. La conversazione non tarda ad avviarsi. Mohammed conosce un po’ l’inglese e ci ripete più volte Welcome, Welcome. Con l’italiano è meno pratico, ma ci dice che alcune espressioni sono di uso comune (stranamente, molte legate alle automobili: cambio, sterzo, frizione), un retaggio del colonialismo italiano del passato. Ci racconta dei giovani libici che non trovano lavoro, ma anche dei molti giovani che non hanno voglia di lavorare. Così i medici o gli ingegneri vengono importati, perché è più comodo. Mentre i lavori più umili vengono lasciati agli stranieri, tunisini in primis. Lui è laureato – almeno così ci dice - ma guida il taxi.

Il paesaggio è arioso. Molte distese sterrate, piccole casupole di mattoni, molte diroccate chissà da quanto. Di tanto in tanto lungo il ciglio della strada, venditori ambulanti offrono la loro merce su un carretto. Bottiglie che paiono detersivi, ma anche bibite e caffé. Colpisce la quantità di cantieri edili aperti. Costruzioni destinate al popolo o immensi spazi finalizzati a centri commerciali moderni, che hanno però l’aspetto di cattedrali nel deserto tanto appaiono isolati dalle case, anche quelle ancora da costruire. Poi avvicinandoti a Tripoli l’edilizia si fa più fitta. Le costruzioni sono tutte simili e poco lasciano ad un’estetica architettonica. I negozi, l’uno in fila all’altro, si affacciano tutti sulla strada principale. Alle loro spalle soltanto viuzze che portano alle abitazioni. Dieci, quindici grattacieli svettano in lontananza. Alberghi internazionali e business center tentano uno sviluppo versa la modernità, però più di facciata che reale. Il tassista ci saluta cordialmente e alla richiesta di una ricevuta risponde con un cenno di attesa. Ce la consegnerà in un successivo tragitto già prenotato, presentandosi con un criptico biglietto blu dove l’unica cosa comprensibile è il numero 20 degli Euro che avevamo pagato.

Siamo sul lungomare. Il punto forse più bello di Tripoli. Le palme disposte in fila ai bordi della spiaggia. La piazza Verde con un accogliente bar al centro. La gente seduta ai tavolini apparentemente in attesa che passi il tempo che manca agli impegni della sera. L’obbligo lavorativo negli uffici termina generalmente attorno alle 14. Poi l’unico pasto della giornata. Quindi due ore di riposo prima del pigro rilassamento che dura fino alla sera. Qualcuno ha invece un secondo lavoro. Il tutto intervallato dalla recitazione delle preghiere, prevista 5 volte nella giornata con genuflessione nella direzione della moschea.

Non ci sottraiamo ad un giro di ricognizione della città, stringendoci su un furgoncino che ci è stato riservato. L’autista stavolta non parla, ma dimostra una pazienza certosina nel districarsi in un soffocante e caotico traffico di autovetture. La benzina come il pane non costa praticamente nulla. Il regime li considera beni basilari e si fa carico in modo assistenziale delle esigenze del popolo. Il basso costo del carburante (10 centesimi di euro al litro) fa sì che tutti si mettano in macchina, anche per passare il tempo. Passiamo, così, ore in coda percorrendo a passo d’uomo le strade della città. Sfilano quartieri in stile italiano e palazzi di impronta araba. Macchine ovunque e pedoni che attraversano all’improvviso quasi a tentare un suicidio. E’ il Paese con più incidenti mortali al mondo. La notizia non mi stupisce. Così come ci dicono che la locale prassi prevede che chi commette un omicidio guidando, viene arrestato dalla polizia, spesso per preservarlo dall’ira della famiglia della vittima: tre giorni di tempo per far valere una sorta di diritto di rivalsa che può culminare anche nell’uccisione dell’incauto autista o di un suo consanguineo.

Quasi tutte le strade non hanno nomi né numeri civici. Ciò fa sì che non esista un vero e proprio servizio postale a domicilio e che tale funzione sia assolta dalle caselle postali presso gli uffici di zona. L’invio di notizie e documenti è in parte garantito dalle connessioni internet, che tuttavia sono alquanto precarie e non sempre funzionanti.

Ci raccontano che talvolta se in un ufficio gli impiegati hanno necessità di una pausa lavorativa, non fanno altro che staccare la spina dalla corrente di nascosto dai clienti, simulando una caduta della connessione del sistema informatico e tutto si ferma. Sembra più una antipatica diceria, ma il dubbio resta. Così come varcando la soglia di una banca non può non stupire l’assembramento di gente al bancone che si accalca per prelevare i contanti, senza il supporto di sistemi automatici di gestione della fila né tanto meno problemi di privacy.

Ci raccontano che la polizia effettui frequenti controlli fermando le automobili lungo la strada. Una volta capita anche a noi. Ci spiegano che molto spesso una sacrosanta multa possa essere barattata con un una banconota infilata astutamente all’interno della patente, prima di consegnarla al poliziotto.

E’ un mondo semplice, molto istintivo e senza infrastrutture mentali, nel bene e nel male. E’ un mondo dove le leggi sono assai poche e molto basilari. Una società ancora articolata in tribù, nella quale le aggregazioni politiche non hanno motivo di esistere se non appunto in relazione all’appartenenza all’una o all’altra casta tribale.

Strano a dirsi però, è un Paese che naviga nel petrolio e quindi potenzialmente di una ricchezza notevole, anche perché soltanto il 20% dei giacimenti petroliferi presenti è oggetto di sfruttamento.

Effettuiamo una articolata ispezione della città in cerca di un edificio da affittare. Davanti ad ogni palazzo ci attendono il proprietario e l’agente immobiliare. Aprono la porta di accesso e notiamo che all’interno vive sempre un giovane abbastanza malmesso che svolge le funzioni di guardiano. Dorme su un materasso posto in terra. In un angolo è sempre presente un tappetino per la preghiera. Poco distante una bottiglia con l’acqua. Ci raccontano che il regime considera le case di proprietà di chi le abita. Il guardiano è anche lì per assicurare che nessuno possa occupare i locali disabitati e di conseguenza rivendicarne di fatto la proprietà.

In una delle case visitate, sta ad attenderci il vecchio proprietario, costretto sulla sedia a rotelle perché privo degli arti inferiori. Ci accoglie con orgoglio nella sua casa. Ci tiene a dare la mano, uno ad uno, a ciascuno di noi e resta in attesa del nostro ritorno dopo la visita all’interno per avere le nostre impressioni. Quanta storia ci deve essere in quel vecchio uomo che si avvia verso la conclusione della sua semplice vita!

Girando per la città colpisce poi la pressoché totale assenza di donne. Queste trascorrono per lo più il loro tempo a casa accudendo la famiglia. Se escono in strada, lo fanno ben coperte, con un immancabile velo a coprire il capo e lunghi abiti informi. Quando facciamo notare un gruppo di ragazze seduto ad uno dei tavolini di un bar con il capo scoperto, ci viene risposto che si tratta di prostitute, la cui usanza è appunto il trucco vistoso e l’assenza del velo. Nonostante si vedano poche donne, è curioso che la Medina, il vecchio bazar che occupa una vasta parte di Tripoli fino al mare, venda per lo più merce destinata alla clientela femminile. Abbigliamento, stoffe, bigiotteria, biancheria, ori, calzature. Tutto esposto in un caleidoscopio di colori e di sapori di antico. Che le donne mandino il proprio marito ad acquistare qualcosa per loro? Mah. Sarebbe da capire quando tutta quella merce possa essere piazzata a donne di cui invece non si vede traccia. Compriamo qualche souvenir. E il proprietario della bottega ci regala qualcosa. C’è molto affetto verso gli italiani, nonostante tutto.

A pranzo mangeremo tutti i giorni al Caffè Saraia. Un insieme di pochi tavolini in metallo, dispersi su uno spazio esageratamente grande per le esigenze del bar. Spiedini di carni, abbastanza piccanti, che sanno di abitudini alimentari antiche e semplici. Pur essendo gennaio l’asfalto è tiepido per il sole che risplende con convinzione.

Ricorderemo per sempre una cena a base di pesce al mercato lungo la strada che esce dalla città lungo il mare. Tante bancarelle l’una in fila all’altra con sopra il pesce in mostra. Alle spalle di tale esposizione, semplici trattorie che cucinano su grandi bracieri quanto scelto alla bancarella. Ancora una volta sapori di riti semplici, di gente semplice. Sono quei sapori del branzino, della ricciola, del dentice che porteremo via con noi per sempre, decollando alla fine del nostro viaggio dall’aeroporto di Tripoli, dopo un’infinita serie di timbri sulle carte d’imbarco e misteriose procedure burocratiche di controllo.

Non immaginavamo che di lì a pochi giorni quella Tripoli, quella Libia, sarebbero cambiate per sempre, inondate da fiumi di sangue eroico e stravolte dall’epica violenza del parto della nascitura Democrazia.