22.4.12

Terziario senza pace

La recente riforma di legge nel mondo del lavoro mi impone una riflessione di maggior respiro rispetto a quella di una ristretta visuale problema/soluzione.
Le dinamiche che caratterizzano l’attuale mondo del lavoro hanno assunto una dimensione preoccupante se paragonate a quelle di soltanto 6-7 anni fa. Che i processi in atto da tempo nel mondo del terziario dovessero produrre prima o poi un’onda lunga era abbastanza prevedibile. Dai primi anni novanta tale settore è stato attraversato da una crescente tendenza alle fusioni, alle ristrutturazioni societarie, alle razionalizzazioni nelle diverse voci di spesa, incluse quelle relativa ai costi del personale.
L’obiettivo di tale processo era del tutto condivisibile: prevenire la crescente competitività sul piano nazionale e internazionale, derivante da un lato dall’assottigliamento dei margini reddituali, dall’altro dalla tendenza alla globalizzazione dei mercati favorita dalle nuove tecnologie e dalle nuove economie emergenti.
Il processo che si è innescato nell’ultimo ventennio è stato impetuoso, costante e continuo, portando il mondo dei servizi a ideare, progettare, pianificare e realizzare una serie infinita di fusioni, acquisizioni, scorpori di rami d’azienda, esternalizzazioni di attività non core, privatizzazioni di aziende statali.
Peccato che agganciati alla sfera di tali operazioni societarie ci fossero milioni di lavoratori dipendenti che nel loro piccolo avevano incrociato i loro destini professionali e di sussistenza economica con le aziende coinvolte dalle stesse operazioni. Questo enorme contingente di storie umane si è trovato giocoforza a dover fare i conti ed accettare cambiamenti nel loro percorso di vita, che probabilmente mai avrebbero immaginato o scelto di affrontare. Fin qui, tutto regolare. Si sa: l’imprenditore tiene le fila e decide come produrre, dove produrre e con quali mezzi produrre, economici e umani.
L’uomo d'azienda ha così iniziato un peregrinare da un datore di lavoro all’altro, in un vorticoso mutare di carte intestate, capitali sociali, biglietti da visita, recapiti postali o email, sedi lavorative, finendo per assomigliare sempre più ad una scrivania, ad un mobile, piuttosto che ad un professionista specializzato, ad un impiegato o ad un manager.
La patologia di questi processi di accorpamento trova ovviamente il suo punto debole nel fatto che la messa in comune di due o più aziende genera sinergie di costo significative e la possibilità di fare con due persone quello che magari nelle aziende originarie si faceva con tre. Da qui la necessità di prevedere un futuro per il terzo incomodo, che volente o nolente si viene a trovare improvvisamente ad essere di troppo.
Le aziende più virtuose affrontano questo delicato processo con assessment volti ad individuare possibili utilizzi alternativi del signore in questione, il quale collocato in altri ambiti può nuovamente contribuire al reddito d’impresa e guadagnarsi il suo prezioso stipendio. Aziende meno virtuose, invece, magari per minori margini di operatività, non attivano questo processo, ed il signore in questione finisce, quando è fortunato, a svolgere attività di minore soddisfazione e, nei casi peggiori, a rischiare una progressiva esclusione dalle sorti aziendali e infine dall’azienda stessa. Soprattutto, viene da riflettere come a differenza della situazione di un tempo, oggi un lavoratore dipendente venga frequentemente messo nella condizione di dover riconsiderare il suo futuro professionale a prescindere da suoi meriti o demeriti professionali.
Allora, cosa suggerire ai nostri figli che stanno per impostare il loro percorso di studi o stanno affacciandosi sul mondo del lavoro dipendente? Resta oggi così determinante questa scelta iniziale o è preferibile sviluppare competenze personali di flessibilità, temperamento, capacità di mettersi in discussione e di adattarsi a contesti in costante cambiamento?

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