12.5.11

Il carcere è l'unica via?

So che potrà sembrare banale e semplicistico. Però rifletto spesso sul significato che nel ventunesimo secolo può rivestire la pena della carcerazione.
Se la pena di morte viola il basilare diritto umano a vivere, e come tale va osteggiata per definizione, mi chiedo se anche il carcere non debba essere riconsiderato nella sua originaria concezione di privazione della libertà personale.
Non è un argomento che può esaurirsi con poche riflessioni affrettate e superficiali: molti penalisti e intellettuali, con molte più competenze di me e con maggiore tecnicalità giuridica, hanno certamente già riempito tomi e tomi sull'argomento.
Mi limito qui a sottolineare la profonda condizione di permanente sofferenza che viene deliberatamente inflitta a chi si vede condannato alla reclusione, più o meno lunga. - sia pure egli o ella il peggiore degli umani, il più scellerato o abietto, un terrorista o uno stupratore, un pedofilo o semplicemente un truffatore.
Certo, si dirà: è colpa sua che non ha disposto bene della propria libertà quando l'aveva.
Eppure, se un uomo commettesse un crimine perchè la società non ha saputo o voluto integrarlo nei suoi sani principi di democrazia, lavoro, famiglia, studio, fratellanza, nè tutelarlo nella sua fragilità morale o ambientale? Dove finisce la colpevolezza di quell'uomo e dove inizia quella di coloro che non l'hanno sottratto ad una strada sbagliata proponendogliene una corretta? Qual'è la concreta efficacia della pena carceraria e del suo potere di redenzione, salvo che non lasciare per strada un individuo potenzialmente pericoloso per la collettività?
Non ho risposte. Se si comminano ancora ergastoli o trentenni di condanna (c'è poi differenza ...?), evidentemente la carcerazione resta l'unico valido deterrente al crimine.
Ma non ci sono, magari, spazi per modernizzare i percorsi di recupero sociale, per potenziare le strutture all'uopo deputate, affinchè questi rei e reietti non siano costretti alla pazzia cui certamente conduce il vivere lontani dai propri figli o dalla natura che ci circonda?
Non ci sono tecniche meno cruente per consentire ad un criminale di maturare un intimo, profondo, saldo pentimento, per tornare infine a vivere veramente da uomo nuovo e  non da lobotomizzato per le infinite ore di violenza fisica e psicologica subita?
Attenzione, lo dico - e lo sottolineo - con il massimo rispetto delle vittime dei crimini e del dolore dei loro familiari, stigmatizzando con orrore l'abbrutimento cui può giungere un essere umano quando si spinge (o viene spinto) fino al crimine.

Nessun commento: