22.12.11

E' nuovamente Natale

In chiusura di un anno in cui il Paese è stato sottoposto ad una fortissima pressione recessiva dell'economia, ci ritroviamo di fronte ai consueti riti dello shopping frenetico e delle vacanze rigeneranti. Ma senza soldi da sperperare.
Vedo la gente che affronta stancamente la processione nelle strade affollate di traffico, senza la voglia che c'era in passato, come se alla fine pesasse un po' a tutti ritrovarsi alle prese con regali e cenoni.
Mi raccontano che all'estero, in Germania ad esempio, in molte famiglie il Natale è la festa dei bambini e soltanto ai bambini sono riservati gli affascinanti doni. Non sarebbe un esempio da imitare? Abolire i regali fra adulti, la spirale consumistica che ci porta a scegliere costosissimi articoli per i nostri amici e cari, ed a riceverne da loro altrettanti, in un vorticoso giro di denaro che potrebbe trovare scopi ben più solidi.
Il Natale ispira anche riflessioni, perchè sono troppe le persone che elemosinano per le strade, troppe le famiglie che a fatica trovano ogni mese l'indispensabile di cui vivere. Scorgi anche molta ipocrisia e un insopprimibile egocentrismo che porta a dedicare agli altri un ascolto scarso o finto.
Laicamente parlando, prescindendo cioè dal valore religioso della Festa, penso a quanto sarebbe bello se il Natale riuscisse ad essere un momento di forte ascolto interiore, un'occasione da cogliere per cambiare qualcosa del nostro modo di essere che sappiamo non andar bene ma che non abbiamo il coraggio di affrontare. Un raro momento di stacco dalla routine e di clima gioioso come questo, potrebbe essere la migliore circostanza per meditare una ripartenza nuova e su presupposti diversi, finalmente consapevoli che la maleducazione e il disinteresse per gli altri sono un qualcosa che non deve esser parte di noi.
Poi, però, purtroppo ci ritroveremo fra un anno a fare gli stessi sogni ed a correre come invasati per le vie della città, in cerca dei regali più sorprendenti per gli amici ed appaganti per il nostro bisogno di piacere loro.
Buon Natale!

15.12.11

Il romanzo della vita

La sceneggiatura o la trama più entusiasmante in cui ci si possa imbattere è quella che il destino traccia per le nostre vite. Non una migliore o peggiore dell'altra, ma tutte preziose nella loro unicità e per la loro imprevedibilità.

11.12.11

Quando leggi De Lillo dopo Wallace

Ammetto che non ho ancora trovato il coraggio di affrontare la mastondontica voluminosità del D.F.Wallace di Infinite Jest, avendo ripiegato sui suoi racconti. "La ragazza dai capelli strani" e "La cosa più divertente..." hanno suscitato in me sentimenti contrastanti: positivi per certi versi, negativi per altri.
E' difficile leggere Wallace prescindendo dall'idea della sua tragica fine, e quindi, forse a sproposito, talvolta sembra di cogliere in qualche suo passaggio i segni di una mente non sempre padrona di se stessa ed impegnata in percorsi mentali onirici o deliranti. Ho apprezzato comunque le sue grandi doti di umorista e la sua profonda passione per lo scrivere e per la costruzione di personaggi e situazioni.
Mi è capitato però di iniziare a leggere, subito dopo, "Americana" di De Lillo. E non ho tardato a riscoprire le stesse sensazioni di epicità contemporanea che mi avevano conquistato quando lessi "Underworld". Non so se un paragone fra i due scrittori abbia senso: De Lillo mi sembra però irraggiungibile nelle sue vette poetiche e nel ritmo seducente del suo modo di narrare. Mai banale, mai noioso, mai prolisso. Un vero maestro e modello per tanti scrittori americani, che sono tuttavia rimasti sempre confinati a debita distanza, artefici e vittime di un filone letterario che ha acquisito presto i connotati di luogo comune e di moda.
De Lillo no. La sua è vera narrativa moderna americana, fatta in maniera inimitabile ed impareggiabile. Penso che anche Wallace sarebbe d'accordo.

3.12.11

La camomilla e Guccini

Un malessere passeggero che mi coglie durante uno dei miei settimanali viaggi a Milano, mi costringe ad una serata in albergo. Incapace di ingerire cibo, lascio la stanza per raggiungere a tarda ora il bar interno, desideroso soltanto di una camomilla calda.
Vi trovo un uomo sulla sessantina, seduto ad uno dei tavolini del bar. Non ci sono clienti. Quando mi vede si alza rispettoso, rivelando una statura molto contenuta ed una corporatura piuttosto tarchiata. Sul viso l'espressione di un uomo buono.
Mi fa accomodare e solerte prende l'ordinazione. Prima di adempiere alla mia richiesta si dirige verso il bancone, dove spegne con imbarazzo un lettore di compact disc con cui stava ascoltando una canzone di Francesco Guccini. Lo invito a lasciare la musica, perchè mi piace. Dice che è un CD che ha ritrovato sepolto fra le cose vecchie e i bicchieri spaiati, avendo in corso il trasloco del bar in una nuova e moderna ala dell'hotel appena restaurata.
Mi porta una teiera in ceramica e il filtro per l'infusione. Mentre inizio a preparare la camomilla, chiede di potersi sedere al mio tavolo. E mi parla di Guccini e di Pierangelo Bertoli, e di come questi due cantanti abbiano dedicato metà dei loro guadagni alla costruzione di un piccolo ma bellissimo ospedale per bambini a Modena. Una quarantina di posti letto.
Lui è di Foggia e da cinquant'anni vive a Milano. Si lamenta della gente che è troppo spesso maleducata.
Si interrompe per farmi ascoltare "Il vecchio e il bambino"; dice che è una canzone che spesso lo commuove. In effetti è molto bella anche se piuttosto triste. Mi spiega che Guccini la scrisse prendendo spunto da "Il vecchio e il mare" di Hemingway.
Poi riprende il filo del discorso, e mi racconta di un episodio capitatogli in metropolitana, quando una volta, lasciando il passo ad una signora per consentirle l'uscita dal vagone, questa gli si rivolse con scortesia, chiedendogli se non la stesse lasciando passare avanti per poterle guardare il sedere. Al che, ridendo, mi racconta che la sua replica fu "Allora, signora, non c'è problema: passo prima io, così il sedere lo potrà guardare lei a me!", prima di uscire deciso dal convoglio.
Continuiamo a chiacchierare per il tempo che sorseggio la camomilla, poi ci salutiamo.
Risalendo con l'ascensore verso la mia stanza, mi trovo a pensare che a volte la poesia ti viene incontro in modo insospettato.

17.10.11

Cronin, chi era costui?

Cronin è uno scrittore dimenticato dal mondo. Tre librerie che ho visitato nei giorni scorsi non avevano in magazzino alcuna copia dei suoi libri.
Difficilmente classificabile. I suoi sono libri che venivano proposti agli adolescenti del secondo dopoguerra. Libri infarciti di valori forti, netti, in cui i buoni sono buoni ed i cattivi assolutamente cattivi. Storie grondanti di visceralità, emozioni semplici e forti, trame ricche di fatti, mai noiose.
Cronin non viene ricordato per uno stile letterario di particolare pregio. Il suo sembra un modo di scrivere di chi lo fa per hobby.
Avevo letto un suo libro tanti anni fa (Gli anni che contano) e mi aveva lasciato una grande freschezza addosso: un senso di linearità e buon gusto. Memore di ciò, ho recuperato "La cittadella": stesse sensazioni e stesso senso di appagamento alla fine.
Non so per quale motivo in particolare, ma trovo che i suoi libri andrebbero riscoperti, riediti e maggiormente studiati e apprezzati.
Sono libri che fanno bene all'anima.

11.10.11

L'instabilità è ovunque

Anche il clima sembra non seguire più una logica naturale. Con inaudita rapidità, ad una giornata sferzata da un freddo vento di tramontana, seguono ore di torrido scirocco estivo. 
Sembra che anche gli elementi si siano adattati all'instabilità che ormai tormenta e caratterizza le nostre vite, così come la società in cui le sacrifichiamo.  

5.9.11

Non sempre Schumacher

La passione per le macchine veloci è una prerogativa di molti italiani, che troppo spesso percorrono le strade (e non solo) a velocità di gran lunga superiori a quelle consentite dal codice automobilistico. Salvo poi compiere brusche frenate all'apparire in lontananza delle segnalazioni di un autovelox o di una pattuglia della polizia stradale.
Dando per scontato che questi appassionati del volante siano tutti abilissimi guidatori, in grado di cogliere con congruo anticipo l'imprevisto che si frappone inaspettatamente davanti alla loro vettura lanciata nella corsa, sia esso un animale, un bambino o un rottame, mi soffermo su una sensazione che in queste situazioni sfugge a questo guidatore e che invece ritengo fra le più belle in assoluto.
Provate a guidare rispettando rigorosamente i limiti orari, provate ad osservare pedissequamente la segnaletica, che intima un divieto di sorpasso o una guida più prudente causa curve o cunette. In parole povere portate la vostra vettura a viaggiare ai canonici 90-130 all'ora o ai 50 orari cittadini. E provate a inserire nel vostro stereo della macchina una bella sinfonia di Beethoven o un Concerto di Mozart: di colpo vi troverete sollevati da terra, in pace con voi e con il mondo che vi scorre davanti, nel più suggestivo e poetico dei documentari.
Io ho provato e da allora ogni tanto me lo concedo, non intendendo rinunciarvi a favore di una frustrante imitazione di un mediocre pilota di Formula 1. 

2.8.11

Tatuiamoci tutti!

Quest'anno fa un certo effetto notare quanti fra coloro che frequentano le spiagge italiane, esibiscono un corpo tatuato in più punti e spesso in modo molto appariscente. Se si eccettuano le presunte potenzialità in termini di seduzione sull'altro sesso, verrebbe da guardare al fenomeno con molta curiosità.
Molti anni fa il tatuaggio era nato come piccolo vezzo femminile come tanti altri accessori più o meno necessari di cui le donne fanno bella mostra. Poi, è entrato nelle palestre ed è andato a esaltare esteticamente i corpi più tonici e dediti al culturismo. Poi, infine, è diventata una vera e propria moda portando i tatuati ad essere una significativa fetta della popolazione giovanile, ma non solo. 
Il problema è che la fisicità dell'uomo italiano è abbastanza risibile: altezza molto contenuta, tratti abbastanza scuri e marcati, capelli spesso ormai dimenticati, ed i tatuaggi a trasformare il tutto in una sorta di affollato esercito di primati abbastanza insignificanti.
E tutto questo per uno sforzo di seduzione. E poi? Dopo la seduzione? Si diventa quarantenni, cinquantenni, ed infine arzilli vecchietti con tigri che solcano i polpacci bianchicci, o adiposi commendatori che nascondono fra le pieghe della pancia o del bicipite afflosciato una ammaliante sirena dal fare sensuale.
Il fatto però che i tatuaggi continuino ad aumentare a dismisura (anche nel vero senso del termine) mi fa essere senz'altro sicuro che sono più i vantaggi che gli svantaggi. E che il grande senso di sicurezza e di omologazione che essi offrono, ben valgono un piccolo imbarazzo da scontare in un lontanissimo futuro presso una casa di riposo all'avvento dell'estate e degli abiti corti e leggeri, quando in fondo chi mai presterà tanta attenzione ad un attempato vecchino con un "Tribale" sull'avambraccio?

29.7.11

Un teatro dei burattini

Ho assistito ad uno spettacolo di burattini, realizzato da una compagnia itinerante che si sposta da una località di mare all'altra per raccogliere platee di bambini sempre entusiasti.
Per lo più sono rappresentazioni di favole, la cui storia viene sceneggiata in versi e rime.
L'insieme è molto artigianale. Sono gli stessi burattinai che, insieme alle loro mogli o fidanzate, si dedicano nell'intervallo fra i due atti a vendere pop-corn e zuccchero filato ai bambini ed ai genitori di questi.
Ma sarebbe sbagliato bollare tutto ciò con l'etichetta di patetico. Dietro la passione che queste persone mettono nel costruire lo spettacolo, la sceneggiatura, i fondali, i burattini e i loro abiti di pannolenci, le musiche e gli effetti speciali (!), si nasconde quella verità che distingue una vera rappresentazione artistica da una confezione piena di mestiere ma priva di cuore.
Poche persone che al mattino arrivano a destinazione, montano la traballante struttura in legno compensato, provano i collegamenti elettrici e l'amplificazione, sistemano le sedie - dietro quelle più grandi per i genitori, davanti quelle più piccole e colorate per i bambini -  al pomeriggio girano per le vie delle cittadine a pubblicizzare con l'altoparlante lo spettacolo della sera, ed infine al calare della notte mettono in scena le voci ed i movimenti abili delle dita ad infondere vita in inermi pupazzi di legno: dove sarebbe dunque il patetico?
C'è invece dell'ammirevole e del poetico in tutto questo. Togliamoci il cappello ed assistiamo a questi spettacoli con deferente rispetto ed attenzione, augurandoci che non muoiano mai.

22.7.11

SMS senza ritorno

Gli short messages (SMS) che ci scambiamo dai telefoni cellulari sono ormai un mezzo di comunicazione noto a tutti e per certi versi quasi antiquato rispetto alle continue novità che la tecnologia ci offre.
Li trovo efficaci per la sintesi che richiedono e per la discrezione che consentono, non irrompendo nel nostro quotidiano con l'invadenza di una telefonata.
Di contro, sottraggono alla telefonata la spontaneità e il calore di un contatto diretto e "dal vivo".
Con gli SMS però è nata una forma di maleducazione che a me colpisce molto e che consiste nel trascurare il valore che può avere una risposta al messaggio ricevuto, ove in esso siano state formulate richieste di informazioni, di conferme o magari semplicemente saluti. 
Non è casuale che siano sempre le stesse persone a mancare nelle risposte. Non quindi una semplice dimenticanza, quanto proprio un atteggiamento di superficialità che suggerirebbe un ritorno alla vecchia invadente telefonata (sempre che rispondano.....!).

1.6.11

Il pericoloso Vadim

Oggi al teatro della scuola Petra Nova di Roma ha avuto luogo la prima (e probabilmente unica) rappresentazione del mio testo "Il pericoloso Vadim".

Alla fine il pubblico è sembrato aver gradito, almeno a giudicare dalle strette di mano ricevute.

A me ha colpito invece la recitazione fresca, imperfetta ed emozionante delle giovani attrici. A tratti perfino commovente. Merito della brava regista Susie Calvi, decisa e convincente nella guida delle ragazze.

24.5.11

Auguri Bob!

Oggi è il settantesimo compleanno di Bob Dylan. Lo ascolto da quando ne aveva 45 e ho cercato di recuperare quanto (moltissimo) da lui prodotto in precedenza (compone brani da quando aveva sedici anni).

Da tanto non esce con un disco memorabile (l'ultimo, Time Out Of Mind del 1996), ma lo spirito con cui ha immolato la sua vita per la musica lo rende un artista fra i più significativi del 20esimo e 21esimo secolo.

Senza di lui la mia vita non sarebbe stata la stessa.

Una parola importante

pragmatico[prag-mà-ti-co] agg., s. (pl.m. -ci, f. -che)

• agg.

1 Relativo all'attività pratica: pensiero ricco di contenuti p.

2 estens. Improntato a senso pratico, a concretezza, senza pregiudiziali ideologiche: atteggiamento p.; che bada al concreto, che guarda ai fatti: uomo, politico p.

3 filos., ling. Che attiene alla pragmatica

• s.m. (f. -ca) Persona dotata di forte senso pratico: essere un p.

23.5.11

Quale futuro per i bambini di oggi?


I dati sull'economia italiana non lasciano intravedere alcun segno di ripresa.

Il tunnel che abbiamo imboccato nel 2007 sembra ancora lungo e tristemente oscuro. Il problmea occupazione è drammatico, il mercato del lavoro è asfittico, molti giovani in possesso di pregevoli titoli accademici faticano ad incontrare aziende disposti ad assumerli. Il precariato cresce e con esso aumentano le difficoltà di creare nuove famiglie e di rigenerare la popolazione del Paese con forze fresche su cui investire, di rilanciare i consumi e di conseguenza gli investimenti industriali.

Un loop che sembra senza fine. Guardo i miei figli e come uno struzzo non voglio pensare alle difficoltà che dovranno affrontare per inserirsi nel ciclo produttivo. Mi auguro che avranno la forza d'animo di scegliere l'estero, i Paesi a più alta innovazione, forse con minore stabilità occupazionale, ma dove il merito paga ed è l'unica cosa che conta per tirare avanti.

In questo quadro cupo, non sapendo nemmeno a cosa possa servire investire capitali con tassi di rendimento che si differenziano gli uni dagli altri di pochi decimali di punto senza per questo cambiarci la vita, prendo la decisione di stipulare una polizza di capitalizzazione per ciascuno dei due ragazzi. Un salvadanaio che li metta in condizione, conclusi gli studi, di affrontare un percorso di specializzazione all'estero: una risorsa in più per qualificarsi sul mercato del lavoro, italiano o non.

Allora mi sento più soddisfatto. Sembra che l'investimento abbia più senso, a prescindere se il tasso di rendimento netto sia del 2, del 3 o del 4%. Coraggio, ragazzi!

15.5.11

Casa Moravia

Alle sette e trenta di una tiepida serata romana, ho visitato l'abitazione di Alberto Moravia, ora adibita a Museo. Siamo una quindicina ad esserci prenotati e una solerte guida comunale ci aspetta sotto al portone di Lungotevere della Vitttoria 1.
Un palazzo elegante, non sfarzoso, in linea con lo stile piemontese del quartiere Prati ed in particolare del Rione delle Vittorie.
Una volta transitati per l'uscio dell'appartamento, istintivamente la suggestione del luogo ispira il massimo silenzio e rispetto. Si respira l'imbarazzo delle case visitate in assenza dei padroni, con un vago senso di colpa per l'invadenza.
Quadri. Molti importanti pittori del novecento italiano occupano le pareti delle stanze. Quadri non acquistati da un ricco appassionato d'arte, ma segni di stima e affetto da parte degli stessi pittori per Moravia. Capisci che l'artista Moravia è ben più che uno scrittore: è parte del ventesimo secolo, è espressione degli intellettuali che ne hanno animato gli sviluppi politici e culturali.
Libri. Le stanze ne sono piene. Sono più di diecimila. Ma non una biblioteca strutturata e scientificamente articolata: piuttosto, il piacere di conservare i libri via via letti, occupando progressivamente ogni spazio dedicato della casa. Soltanto in alcuni casi la scelta del posto per i libri non è casuale: la libreria con i volumi sui viaggi, quella con i grandi romanzi russi, quella con i testi sul cinema.
Uno studiolo con la televisione precede la stanza di lavoro. Una massiccia e semplice scrivania di legno sulla quale troneggia la macchina da scrivere. Sembra di vederlo seduto lì a comporre molti dei suoi capolavori. Ed accanto alla scrivania, un divano morbido, comodo, di stoffa grezza, dove spostarsi a riflettere su un'idea improvvisa da sviluppare. Non c'è in quella stanza il terrazzo che ti aspetti. Ma una finestra semplice che è però uno squarcio su una delle più belle viste della Roma lungo il Tevere.
E' in salotto invece che si accede da una porta finestra ad una terrazza semicircolare, anch'essa elegante perchè non sfarzosa nè scenografica. Ma una terrazza comoda, vissuta, a misura di Moravia e della moglie del momento, la Maraini o la Llera. Il salotto era per i pomeriggi; alla mattina il lavoro della scrittura, al pomeriggio spesso un cinema o altrimenti gli incontri con gli amici in quel salotto, dove in un angolo si scorgono le bottiglie di brandy o whisky da offrire. Anche qui, un divano morbido in stoffa grezza e, poi, molte maschere africane alle pareti, a memoria del suo amore per quel continente.
Un corridoio di libri e si arriva infine alla camera da letto. Scarna, essenziale. Non amava dormire, si alzava presto. Ad un lato del letto, al posto di un comodino, un grammofono serviva forse ad acquietare l'animo alla sera.
Dunque una casa molto sobria. Non amava accumulare scartoffie e cose non necessarie. Buttava via molto. Gli unici manoscritti conservati furono riscoperti dopo la sua morte in una valigia ritrovata nelle cantine del palazzo. Qualche inedito o qualche bozza poi superata. Ma nulla più. Dentro di sè Moravia aveva tutto ciò di cui necessitava.

12.5.11

Il carcere è l'unica via?

So che potrà sembrare banale e semplicistico. Però rifletto spesso sul significato che nel ventunesimo secolo può rivestire la pena della carcerazione.
Se la pena di morte viola il basilare diritto umano a vivere, e come tale va osteggiata per definizione, mi chiedo se anche il carcere non debba essere riconsiderato nella sua originaria concezione di privazione della libertà personale.
Non è un argomento che può esaurirsi con poche riflessioni affrettate e superficiali: molti penalisti e intellettuali, con molte più competenze di me e con maggiore tecnicalità giuridica, hanno certamente già riempito tomi e tomi sull'argomento.
Mi limito qui a sottolineare la profonda condizione di permanente sofferenza che viene deliberatamente inflitta a chi si vede condannato alla reclusione, più o meno lunga. - sia pure egli o ella il peggiore degli umani, il più scellerato o abietto, un terrorista o uno stupratore, un pedofilo o semplicemente un truffatore.
Certo, si dirà: è colpa sua che non ha disposto bene della propria libertà quando l'aveva.
Eppure, se un uomo commettesse un crimine perchè la società non ha saputo o voluto integrarlo nei suoi sani principi di democrazia, lavoro, famiglia, studio, fratellanza, nè tutelarlo nella sua fragilità morale o ambientale? Dove finisce la colpevolezza di quell'uomo e dove inizia quella di coloro che non l'hanno sottratto ad una strada sbagliata proponendogliene una corretta? Qual'è la concreta efficacia della pena carceraria e del suo potere di redenzione, salvo che non lasciare per strada un individuo potenzialmente pericoloso per la collettività?
Non ho risposte. Se si comminano ancora ergastoli o trentenni di condanna (c'è poi differenza ...?), evidentemente la carcerazione resta l'unico valido deterrente al crimine.
Ma non ci sono, magari, spazi per modernizzare i percorsi di recupero sociale, per potenziare le strutture all'uopo deputate, affinchè questi rei e reietti non siano costretti alla pazzia cui certamente conduce il vivere lontani dai propri figli o dalla natura che ci circonda?
Non ci sono tecniche meno cruente per consentire ad un criminale di maturare un intimo, profondo, saldo pentimento, per tornare infine a vivere veramente da uomo nuovo e  non da lobotomizzato per le infinite ore di violenza fisica e psicologica subita?
Attenzione, lo dico - e lo sottolineo - con il massimo rispetto delle vittime dei crimini e del dolore dei loro familiari, stigmatizzando con orrore l'abbrutimento cui può giungere un essere umano quando si spinge (o viene spinto) fino al crimine.

11.5.11

Un funerale

Due uomini sorreggono con riconoscenza filiale la bara che custodisce la salma del padre.
Dietro di loro, a due a due, gli impiegati delle pompe funebri ne condividono il peso, mentre percorrono la lunga navata centrale della chiesa. La moglie e la figlia del defunto affiancano questo mesto corteo, con il capo chino e reso traslucido dai rigoli delle lacrime. L'insieme risulta fortemente terreno, eppure, allo stesso tempo, trasfigurazione di una sacra famiglia.

6.5.11

Il mio the al limone

Se non disponete di acqua minerale, fate scorrere a lungo l'acqua di rubinetto; il sapore di cloro o dei tubi ferrosi altrimenti rovinerebbe tutto. Riempite il bollitore del quantitativo di acqua necessario e ponetelo su un fuoco medio. I bollitori dispongono spesso di un'asola dalla quale è possibile percepire il fischio del vapore proveniente dall'interno. E' importante, perchè il fuoco deve essere spento al primo sentore di tale fischio, così che l'acqua non entri in piena ebollizione.

Se l'infuso del the debba avvenire nel bollitore stesso o in tazza è questione di gusti personali. Nel mio caso è la pigrizia a farmi propendere per quest'ultima strada, posto che, altrimenti, a lungo andare l'interno del bollitore verrebbe a macchiarsi in modo indelebile e soprattutto l'inserimento del filtro direttamente al suo interno comporterebbe una scomoda manovra esponendo la mano al bruciore del vapore.
Dunque, dopo aver posizionato il filtro (o il colino con le foglie essiccate) nella tazza, versatevi l'acqua calda avendo cura di non farla cadere direttamente sulla bustina e lasciate in infusione per circa due minuti. Una durata più lunga darebbe un sapore più intenso ed amarognolo al the, ove ciò fosse rispondente ai gusti personali.

Nel frattempo, tagliate una sottile mezzaluna di limone e immergetela nell'infuso, affinchè abbia ad aromatizzarsi. Attenzione a questa fase: molto spesso vedo baristi - o esperti di caffè... - prelevare uno spicchio di limone esageratamente grande e talvolta spremerne addirittura il succo, sicchè nel primo caso risulterebbe difficoltoso l'utilizzo del cucchiaino ed il successivo sorseggiare, mentre nel secondo  il the assumerebbe uno spiacevole sapore acidognolo. Il limone, nella sua minuscola dimensione, deve dunque lasciare un delicato profumo che non sovrasti quello del the ma lo valorizzi esaltandolo.

Una volta rimosso il filtro dalla tazza, aggiungete da ultimo lo zucchero. Anche qui vale il discorso del limone: troppo zucchero renderebbe il the uno sciroppo quasi stucchevole. Un cucchiaino, massimo uno e mezzo, mi sembra invece il giusto equilibrio per mantenere intatto l'aroma delle foglie prescelte, senza tuttavia rinunciare al nostro fanciullesco piacere per le cose dolci.

Berrete infine il vostro the ancora caldo, al punto da non risultare bruciante per il palato, nè tiepido da risultare sgradevole nello scendere in gola. Accompagnarlo con pasticcini o biscotti al burro è poi senz'altro una scelta indovinata.

4.5.11

Un ricordo scolastico su Paolo Di Nella

I miei anni scolastici (scuole medie inferiori e superiori) sono coincisi con gli anni di piombo del terrorismo di matrice politica. Dal 1977 al 1983 sembrava quasi normale che si sparasse nelle strade, che venissero uccisi magistrati e giudici, che ci si picchiasse alle manifestazioni. Più di una volta sembrò di essere ad un passo dalla guerra civile.
Finchè poi vennero il riflusso, il boom economico, la Milano da bere, il Craxismo nei suoi lati positivi e negativi, a spazzare via tutto.
A ripensare a quegli anni suona strano immaginare che imberbi ventenni tenessero sotto scacco il Paese, eppure era così, lo Stato sbandava paurosamente. Ma al di là delle frange terroristiche più estreme e violente, quelle erano le ultime generazioni del dopoguerra che crescevano con un sincero ed appassionato impegno politico giovanile.
La mia scuola, il Liceo scientifico Righi di Roma, passava per un istituto politicamente collocato a Destra. Si trattava di un liceo ritenuto fra i più seri e che ospitava in prevalenza giovani provenienti dalla media borghesia romana. A meno di cento metri c'era il Liceo classico Tasso, anch'esso ottima scuola, ma di tutt'altro orientamento politico. Ovviamente i dissidi tra le due scuole erano abbastanza all'ordine del giorno...
Confesso che al tempo ero più imberbe degli imberbi studenti militanti e poco mi interessavo di politica, ancora preso com'ero da passioni adolescenziali quali la musica o lo sport. Scelsi così il Righi, soltanto perchè volevo compiere studi scientifici e perchè esso offriva sufficienti garanzie per la tranquillità dei miei genitori.
Fra i ricordi più vivi che conservo di quegli anni c'è quello legato a Paolo Di Nella, che entrò a far parte della mia classe nell'ultimo anno di corso.
Di Nella era un appartenente al Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile di destra che ha avuto fra i suoi aderenti anche l'attuale sindaco di Roma, Alemanno.
Ebbene, una sciagurata sera nel febbraio 1983, Di Nella venne colpito con violenza da una banda rivale mentre appendeva manifesti a sfondo socio-culturale nel quartiere Africano. Rimase in coma sette giorni prima di morire al Policlinico Umberto I. Vennero a visitarlo il Presidente Pertini (contestato) e i nostri Rappresentanti di classe.
Fu uno shock per tutti noi. Stavamo organizzando la festa di Carnevale e la gita per i cento giorni alla Maturità. Tutto fu ovviamente rivisto. Quell'episodio ha segnato probabilmente il mio ingresso nel mondo degli adulti e forse inconsciamente ispirato il mio recente libro.
Paolo Di Nella, al pari di altri come lui, aveva certamente alle spalle episodi legati a manifestazioni più o meno violente e ad accese battaglie politiche e studentesche. La cronaca dice che nel 1981 si iscrisse ad un istituto scolastico privato per sfuggire a minacce che gli erano state rivolte presso la scuola dove studiava in precedenza (peraltro, la cronaca stranamente nulla dice del fatto che nel 1983 fosse divenuto uno studente del Righi).
Il mio ricordo di lui è quello di un ragazzo taciturno, apparentemente più grande dell'età che aveva. Occupava un banco dell'ultima fila e talvolta lo scoprivi assorto su testi di carattere politico (ricordo un'edizione de Il Capitale di Marx). Ricordo anche, che era estremamente mite e gentile nel parlarci, quasi si sforzasse di trovare un canale di comunicazione con noi altri, da lui forse inquadrati quali ragazzi inesperti che poco potevano capire della profonda passione politica che accendeva il suo animo.
In effetti noi non sapevamo nulla del suo privato, nè chi fosse, da dove venisse o cosa cercasse. Era un ragazzo poco più grande che avevamo accolto con la pura spontaneità che solo i giovani sanno esprimere. Senza sapere che un pezzetto di storia politica del Paese si stava svolgendo proprio lì intorno a noi.

Perchè ci serve lo psicologo?

Oggi più che in passato usiamo rivolgerci agli psicologi, per disporre di un sostegno in fasi più o meno prolungate e difficili della nostra vita.

Mi chiedo se le passate generazioni fossero dotate di una maggiore solidità caratteriale o se invece oggi siano maggiori e più nocive le sollecitazioni nervose che ci investono nel corso dell'esistenza o se ancora una maggiore disponibilità economica ci permette piccoli lussi quali appunto lo psicologo, il personal trainer o l'estetista.

Non dispongo di statistiche in proposito, ma ricordo che trent'anni fa nella scelta della facoltà universitaria, la prospettiva che veniva dalla psicologia era alquanto fragile ed insicura. Molti psicologi, poco lavoro. Ma oggi è ancora così? E se invece questa branca del sapere stesse divenendo un possibile sbocco di successo per i ragazzi che nutrono tale passione e vogliono farne un mestiere? E' un caso che oggi il settore del benessere in senso lato sia uno tra i pochi a garantire buoni ricavi ad un imprenditore?

Spiace riconoscerlo, ma si scopre tanta fatica di vivere in giro, e non come in passato per scarse risorse economiche. L'esasperazione dei modelli ideali di vita che ci trasmettono quotidianamente i media, unita ad una durissima crisi occupazionale, morale e familiare, mettono a dura prova - molto più che in passato - l'equilibrio di ciascuno di noi.

Pochi, forti, se la cavano - forse quelli che hanno meno tempo per riflettere e spaventarsi - ma i restanti cercano strumenti che riducano tali tensioni interne o che magari li aiutino a ricostruire un diverso e più sereno approccio al mondo moderno. Non mi stupirebbe che nel tempo crescesse significativamente l'interesse anche per le discipline orientali che educano alla meditazione, al rilassamento psicofisico.

Sarebbe però anche bello che tutti ci facessimo un esame di coscienza e ci assumessimo un concreto impegno personale per ricondurre l'umanità ad un nuovo senso della misura, ad una minore produzione di fatti o notizie ansiogene, ad un drastico ridimensionamento delle droghe (carriera, potere, successo, ricchezza, bellezza, fama, moda) che ormai, volenti o nolenti, ottenebrano le nostre menti.

2.5.11

Giustizia è fatta

E' notte fonda in Italia quando si diffondono le prime notizie dell'avvenuta uccisone in Pakistan del terrorista Bin Laden, capo supremo dell'organizzazione Al Kaeda.

Un epilogo di una lunga caccia all'uomo, iniziata dai servizi segreti degli Stati Uniti oltre un decennio fa ed ulteriormente potenziata all'indomani della strage delle Torri gemelle a New York nel 2001.

Scontate le reazioni di giubilo in tutto il mondo occidentale ed in gran parte di Oriente e Medio Oriente. Particolarmente incontenibile la gioia dei cittadini Usa, ancora sotto shock per la tragedia epocale di Ground Zero.

Eppure, desta sempre altrettanto dolore la spietatezza dell'uccisione di un uomo, specialmente quando essa è frutto di una condanna a morte decretata da una cultura occidentale che dovrebbe prendere le distanze dall'omicidio quale pena capitale per un delitto commesso, per quanto atroce.

Siamo tutti contenti che un profeta del crimine, un fanatico esaltato quale era Bin Laden non ci sia più - anche se poi altri probabilmente verranno dopo di lui per vendicarlo e farne un martire. Ma nel mio silenzio interiore feriscono le scene di tripudio ed esaltazione di tanti giovani americani che esultano per le strade come dopo una importante vittoria sportiva della squadra del cuore.

Questa volta mi riconosco pienamente nelle dichiarazioni provenienti dal Vaticano: "Di fronte alla morte di un uomo, un cristiano non si rallegra mai".

29.4.11

Quelle repellenti mani di forbice





Una notizia curiosa ha attirato oggi la mia attenzione: il ventesimo anniversario del film "Edward mani di forbice" di Tim Burton.

Una notizia come le tante che escono quotidianamente sui giornali, ma mi ha fatto piacere constatare come questo film "minore" abbia un suo spazio di attenzione nella mente della gente e dei media.

Ricordo che ne rimasi anch'io molto colpito e commosso. Una sorta di favola stralunata che ricorda il tema di "La bella e la bestia" e che spiazza per il suo semplice ma profondo messaggio: la difficoltà di sentirsi diversi in un mondo che sempre più premia l'omologazione, la moda, il fare tendenza.

Edward è un disadattato che soffre la sua bizzarra conformazione corporea e che cerca in tutti i modi di metterla al servizio degli altri, perchè in fondo anche lui ha bisogno dell'attenzione degli altri e dell'amore della ragazza per la quale prova un sentimento profondo.

E' un film che andrebbe rivisto ogni tanto, perchè in anni in cui sempre più ci compete il nobile dovere di ospitare le molte etnie in fuga dalla povertà e da regimi dittatoriali oppressivi, capire che dietro un aspetto ed una cultura diversi trovano posto un cuore e un'anima uguali ai nostri, è un passaggio fondamentale verso un'era di reale modernità.

20.4.11

Un altro cinema in meno

Uno storico e piccolo cinema di quartiere chiude. Per lungo tempo nulla accade. Poi l'inizio dei lavori di ristrutturazione da parte del nuovo proprietario.

Oggi, passando davanti alla struttura ancora chiusa, la delusione: il cinema non ci sarà più. Una targa in ottone informa che al suo posto troverà sede l'Istituto di Economia Agraria dell'Università di Roma.

19.4.11

Moby Dick

Ho inziato a leggere Moby Dick di Melville (non è mai troppo tardi).

Qualcuno ha scritto che è come tuffarsi nel nero di un mare burrascoso. I contemporanei dello scrittore giudicarono il libro l'opera di un uomo in preda al delirio.

Mi sento di dare ragione ad entrambi i giudizi. La potenza visionaria di Melville è impressionante e mentre leggi ti sembra quasi di sentire il frastuono del mare e gli schizzi d'acqua salata inumidirti il viso.

Negli occhi dei bambini

Guardi negli occhi dei bambini e vi scorgi determinazione, curiosità, entusiasmo, serenità, concentrazione, attenzione, memoria, spontaneità, bontà, energia vitale.

Se riesci a mantenerti sulla loro lunghezza d'onda, essi possono essere i tuoi veri maestri di vita.

18.4.11

Prova d'attore

Proseguendo nel dilettantesco sforzo di scrittore, mi sono trovato a creare un copione teatrale per un corso di recitazione organizzato presso una scuola di Roma. Ciò mi ha consentito di assistere a qualche prova, occupando - unico spettatore - un posto nella platea del teatro.

Forse un set cinematografico produce le stesse emozioni, ma quale incanto è vedere un personaggio che prende gradualmente corpo, forma e parola di un attore teatrale!

Sotto gli esperti tocchi della regia, il tono di voce viene aggiustato, l'espressione dei volti plasmata in relazione all'effetto da creare; e quando infine l'intera scena viene provata, l'opera assume vita propria, assume nuove sembianze, si innalza sospinta da un'invisibile energia creativa.

Mi torna alla mente la frase di Pablo Picasso che diceva pressappoco così: "tutto l'interesse dell'arte sta nell'inizio".

In quella frazione di tempo che conduce il personaggio a prendere vita, sta tutta la magia del teatro. Il resto è mestiere, d'attore o di regista che sia.

"Libertà" di J. Franzen

E’ sempre emozionante imbattersi in libri importanti e indiscutibilmente belli. Quando gli occhi raggiungono l’ultima parola dell’ultima delle oltre 600 pagine che compongono “Libertà”, un senso di appagamento ti pervade. Sappiamo che a differenza, purtroppo, di molti libri che leggiamo, questa storia rimarrà per sempre dentro di noi, forse inconsciamente ispirando anche le nostre esistenze.Credo che Franzen con “Libertà” abbia composto il capolavoro della sua carriera. Ci auguriamo che molti altri romanzi di valore possano succedergli e che uno di essi possa smentirci, ma al momento di fronte a questa opera non è facile immaginare ulteriori margini di miglioramento.


La ricetta scelta dall’autore è strettamente imparentata con quella di “Le Correzioni”: un affresco familiare, che per il suo carattere di universalità acquista un tono classico, nel senso contemporaneo che si può attribuire a questo aggettivo. Proseguendo nella sua meticolosa analisi delle dinamiche interne all’istituzione Famiglia (oltre a “Le Correzioni” leggasi anche il racconto “Le Ambizioni” proposto di recente da Repubblica), Franzen arricchisce la sua personale commedia umana di un altro nucleo di coniugi con figli. La più universale delle famiglie, appunto.


Laddove però si poteva percepire quale unico difetto di “Le Correzioni” la rigida spartizione dei capitoli fra i vari componenti della famiglia, qui le varie vicende sono amalgamate e collegate in modo molto equilibrato, guadagnandone la tensione narrativa e il ritmo della lettura.


Al centro di tutto, ancora una volta, le difficoltà, il senso di routine e di stanchezza che può attanagliare i coniugi legati da un lungo matrimonio esponendoli al doloroso rifugio del tradimento; la fisiologica ribellione dei figli, bramosi di costruirsi il loro futuro in un mondo, però, che ne ostacola in tutti i modi il decollo. Di qui la controversa relazione con i genitori, fatta di conflitti generazionali ma anche di sotterraneo affetto, e di un profondo ed umano senso di dedizione filiale.


E’ magistrale il modo in cui Franzen tiene insieme le vicende dei personaggi e le sfumature psicologiche dietro le loro azioni/reazioni, soffermandosi sui rispettivi istinti di vita – sentimentali, lavorativi, sociali – e sui conflitti interni che da essi possono generarsi. Perché la “libertà” non è mai alla fine pienamente tale, essendo sempre circoscritta e condizionata dalle interazioni più o meno inconsce con quella degli altri familiari.


Sullo sfondo, eppure protagonista anch’essa del libro, l’ambientazione politico-economica del nostro secolo, la critica all’imperialismo Usa di matrice Bushiana e allo sregolato sfruttamento delle risorse naturali dei paesi meno sviluppati, l’attivismo per l’ecologia e la protezione dell’ambiente, talvolta fini a se stessi. Anche in questo caso Franzen è amaro nel denunciare l’apparenza della “libertà” di espressione o di azione: fra coloro che fanno la parte dei “cattivi” e quelli che agiscono da “buoni” regna infatti il compromesso nella forma più deteriore degli scambi di interesse; gli uni hanno bisogno degli altri per conseguire i propri obiettivi e guidare la società verso un ignoto futuro.


Eppure, nonostante il quadro non roseo che Franzen ci presenta, dalla lettura del libro si esce in qualche modo fiduciosi. Questo inno alla grandezza della debolezza umana ci suggerisce che da essa possa nascere l’esperienza, aiutandoci a sperare che un graduale, quand’anche lento, avvicinamento alla “libertà” sia ancora possibile.


14.4.11

Aereo o treno?

Chi viaggia spesso fra Roma e Milano può scegliere se spostarsi con l'aereo o in treno. Le tariffe dei due mezzi sono ormai competitive e i tempi di viaggio (comprensivi di spostamenti da/per aeroporto/stazione) molto simili.
Ormai da tempo i treni ad alta velocità scimmiottano l'atmosfera business degli affollati voli fra le due principali città italiane. Distribuzione di un quotidiano gratuito, snack a bordo, hostess e steward più o meno gradevoli, annunci in doppia lingua e patinate riviste ad attenderti al tuo posto.
Personalmente fatico ad abbandonare il tragitto via aria. Sarà il minor tempo in cui si è costretti a subire le sollecitazioni dinamiche del viaggio, sarà la maggiore allegria che affolla gli aeroporti rispetto alle stazioni, in parte decadenti e maleodoranti, sarà il fascino che indubbiamente esercita il paesaggio visto dall'alto.
Ieri ho preso il treno dopo molto tempo che non lo facevo e di colpo ho capito che cosa me lo rende ostile: la sinfonia di squilli dei cellulari e delle assordanti voci dei businessmen che nulla fanno per mantenere una certa discrezione nelle loro conversazioni d'affari. Quest'invadenza mi infastidisce: non ho voglia di avere i resoconti delle ultime riunioni dei Consigli di Amministrazione o i dettagli dell'ultima causa patrocinata da eleganti avvocati in età ormai avanzata.

Ieri un giornalista che mi sedeva accanto ha speso le tre ore del viaggio a pubblicizzare ininterrottamente il suo ultimo libro e come le vendite di questo stessero procedendo a gonfie vele, rispondendo tronfiamente alle mille richiamate susseguenti alla caduta della linea causa gallerie. Nè mai ha avuto la delicatezza di disattivare la potente e squillante suoneria sostituendola con la più delicata vibrazione. Mi chiedo chi sia interessato ad acquistare un libro scritto da individuo di così scarsa educazione... A volte meglio non conoscerli dal vivo gli autori..!

In quell'ora di aereo - almeno finchè durerà - i cellulari vanno spenti, ed è un piacere assistere alle crisi di astinenza da sms o da contatto con la segretaria o con i collaboratori in ufficio; crisi di astinenza che risulta palese all'atto della affannosa riaccensione dei telefoni dopo l'atterraggio.

In quell'ora, però, riesci forse anche a dormire o a riflettere. Il che non fa mai male.

11.4.11

Cittadini del mondo

Anche l'Italia, come altri Paesi occidentali, è sempre più interessata da flussi migratori in entrata, provenienti dai continenti più disagiati od a più alta densità.

E' un problema non banale integrare tali contingenti di persone, per la gran parte in cerca di un lavoro, di un tetto e di una sicurezza sociale.

Il nostro Paese fa fatica a dare l'essenziale ai cittadini italiani e sembra inimmaginabile che riesca a farlo anche nei confronti dei nuovi arrivati. Le forze politiche, la Chiesa e tutta la cittadinanza devono porsi questa quale priorità: la ricerca di valide e varie soluzioni che nel tempo facilitino l'integrazione degli stranieri nelle infrastrutture sociali esistenti. Nuove tasse, nuove forme di sussidio al lavoro, maggiori tutele per i più deboli, incentivi alle imprese che sviluppino iniziative in grado di assorbire forza lavoro in modo importante; non è facile l'impegno legislativo ed economico che ci attende nei prossimi anni.

Però, quale impatto in termini di modernità ha questo progressivo mescolarsi di geografie, razze, culture, lingue o monete!

Allora, quando infine il processo sarà compiuto, tutti gli uomini potranno realmente sentirsi tali.

8.4.11

Scusatemi se non amo il jazz...

Confesso che non ho ben chiaro quali siano le motivazioni che mi hanno portato a non nutrire passione alcuna per la musica jazz.

Per quanto da sempre la musica eserciti su di me una profonda attrazione, che mi ha portato nell'arco degli anni ad accumulare dischi, musicassette, CD, MP3, etc., io e la musica jazz siamo due mondi totalmente estranei.

Ci ho provato, non che non l'abbia fatto. Ma la reazione è sempre la stessa: la mia incapacità di subire emozioni di qualsiasi tipo dall'ascolto di quel tipo di ritmica, strumenti e musicalità.

Anzi, ogni volta non ho potuto fare a meno di notare come quelle sonorità mi ricordino atmosfere di sottofondo: sottofondo nei locali, sottofondo nei film, sottofondo nelle sale d'attesa.

Ed è sciocco dirlo, ma la musica jazz mi richiama Scott Fitzgerald, il Grande Gatsby, l'America più ricca, i riti sociali della classe alto borghese, che esibisce il suo benessere e la sua raffinatezza (talvolta solo di beni e non di modi).

So che non è così e i cultori mi scuseranno. Anzi ben venga qualcuno che sappia introdurmi alle interminabili improvvisazioni polistrumentali, alle patinate atmosfere delle trombe o degli altri fiati.

Scusatemi, ma non ho saputo andare oltre il sempliciotto rock and roll o la magica e sovrannaturale musica classica.

6.4.11

Scrittori classici e contemporanei

Nello scegliere i libri da leggere mi sono accorto di alternare con una certa regolarità autori classici, o comunque del novecento, ed altri contemporanei.

Il confronto mi permette di cogliere i pregi degli uni e degli altri, ma anche di notarne i rispettivi limiti.

Un autore classico mi trasmette una sensazione di linearità ed ordine mentale che si traduce in trame ben sviluppate e molto ordinate, fornendo chiavi di lettura spesso a valenza universale e atemporale, con una valenza di viatico anche per noi moderni.

Un contemporaneo mi permette invece di esplorare le tante complessità del vivere moderno, le sue contraddizioni, le sue bassezze, l'asmatica necessità che abbiamo di strappare ordine e benessere ad una società che sembra in disfacimento giorno dopo giorno; Franzen, Coe, ma anche Maggiani, si sforzano di leggere i nostri tempi e estrapolarne le angosce, le difficoltà, dimostrando l'inconscio attaccamento al nostro passato.

Credo che continuerò in questa alternanza fra classico e contemporaneo, perchè non voglio privarmi della magistrale visione dei grandi della letteraratura passata, nè però intendo isolarmi dal mondo in cui vivo e con il quale necessariamente devo fare i conti ogni giorno, mentre guido la macchina o svolgo il mio lavoro.

30.3.11

Società in divenire

Vedere come anche in Italia sia rispettata la regola del divieto di fumo nei luoghi pubblici chiusi, al pari dell'obbligo del casco su moto e motorini o della ricerca di un'alimentazione e di uno stile di vita più sano, dimostra quanti passi in avanti importanti siano stati fatti e quanto le persone abbiano la consapevolezza di un comportamento responsabile quando sono in gioco le possibilità di sopravvivenza (tumori, incidenti, etc.).

Magari, tra qualche decennio ci scopriremo altrettanto rigorosi e responsabili nel rispetto degli obblighi fiscali, delle regole di educazione civica, dei principi di altrusimo e tolleranza. Perchè no?!

25.3.11

Ad armi uguali

Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore. Dunque tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa. (G. Leopardi, da "Zibaldone")

Sulle canzoni di rivolta

In un provocatorio passaggio del suo ultimo libro "Freedom", Jonathan Franzen fa dire ad uno dei personaggi principali che le canzoni rock, anche quelle ritenute di opposizione al Sistema (fa l'esempio di Bob Dylan), non sono che "chicklets" (gomme americane alla menta), ossia gustose gomme da masticare ed assaporare, che vengono poi gettate via una volta consumate.
E al contrario cita la "Marsigliese" quale vero esempio di canzone di protesta, sulle note della quale fu condotta la Rivoluzione francese.
Un paradosso che mi piace per il modo con cui pone le giuste differenze fra ciò che è profondamente eroico e ciò che lo è meno.
E sì che io colloco Dylan fra le forme di arte più ispirate degli ultimi decenni.

24.3.11

L'abito fa il monaco

In questo periodo mi capita spesso di viaggiare per lavoro. Più che in passato noto quindi le persone che affollano gli aeroporti, soprattutto in coincidenza delle tratte più frequentate. Quella fra Roma e Milano è senz'altro fra queste.
In particolare faccio caso alle tipoogie di persone: gli uomini di affari altolocati, i rappresentanti di commercio, i giovani impiegati, i giovani dirigenti, i dirigenti vicini alla pensione, le donne manager. Poi negli orari più comodi compaiono i vip, le anziane signore, le mamme con bambini, le coppie in vacanza, e così via.
Notavo come ora i manager abbiano sostituito la normale borsa da viaggio con più sportivi zainetti da trekking. Capita così che sopra un abito gessato grigio, con l'orlo rigorosamente corto a scoprire tutta la scarpa (perchè fa molto finanza inglese...), sopra un trench rigorosamente firmato, penzoli dunque lo zainetto, probabilmente riempito con un cambio di biancheria ed una camicia.
Non dovrei, ma questa omologazione delle divise da lavoro e il poco coraggio nel non scegliere un abbigliamento che passi banalmente inosservato, è fra le cose che più detesto nei viaggiatori che incrocio. Forse più del tic nervoso con cui ormai continuamente tutti controllano lo schermo del proprio telefonino, sperando di trovarvi messaggi o chiamate cui rispondere, o del modo scomposto con cui occupano il proprio posto sull'aereo, invadendo braccioli e spazi di spettanza del vicino di poltrona.

22.3.11

La cacca di cane

L'uomo camminava con il bambino al fianco. La traiettoria del primo era sicura e diritta. Quella del piccolo più pigra, distratta da idee e dettagli della strada, uno zigzagare che a volta intralciava il percorso del padre. Nonostante ciò, facevano progressi lungo il percorso che avevano intrapreso.
Ma una cacca di cane guastò tutto. Con mira straordinaria, il bambino - lo sguardo distratto dai luccichii che lo circondavano - vi pose sopra un piede schiacciandola in una nauseabonda frittella. E goffamente anche l'orlo del pantalone andò a tingersi dell'olezzoso color marrone.
Il padre sfogò il suo disappunto sul bambino, poi prese a maledire i cani e i padroni dei cani e perfino le associazioni animaliste.
Qualcuno aveva lasciato che il proprio cane facesse i suoi bisogni in mezzo ad un marciapiede. Qualcun'altro aveva sfogato il suo disumano odio per questi.
Il cane ed il bambino avevano invece proseguito la loro giornata, con l'immutata felicità della loro innocenza.

15.3.11

La bicicletta

Si sollevò sulla punta di un piede, mentre l'altro scavalcava la canna orizzontale che univa il sellino al manubrio. Infine si sedette con tutto il peso del corpo, le mani saldamente ferme sulle manopole di gomma dura in prossimità delle due leve dei freni.
Con un deciso colpo di pedale, la bicicletta prese a muoversi e con giri sempre più rapidi delle ruote, si insinuò silenziosa fra due ali d'aria.
Delle buche sul terreno fecero sobbalzare il mezzo, liberando per un momento il suono ferroso delle maglie oleose della catena. L'uomo si sollevò leggermente sul sellino per non subirne i colpi. Poi tornò a sedersi e la bicicletta riprese con silenziosa fluidità la sua corsa.

25.2.11

Un ricordo della Libia

Un’incredibile coincidenza ha voluto che mi recassi in Libia venti giorni prima che scoppiasse la violenta guerra civile che sta sgretolando il regime quarantennale del Colonnello Gheddafi.

Era la mia prima volta nel continente africano, appena un’ora e mezzo di volo. Eppure né una vacanza né un’occasione lavorativa mi avevano in precedenza spinto verso questa terra ancora così lontana dalla cultura dell’efficienza e del capitalismo, fortemente radicata in Europa, come negli Usa od ormai nell’estremo Oriente.

In Africa tutto deve ancora accadere. Anche quei Paesi che vantano uno sviluppo ed una ricchezza di rilievo, come il Sud Africa o l’Egitto o la stessa Libia, devono fare i conti con problematiche sociali, sanitarie, infrastrutturali altrove da tempo accantonate.

L’arrivo del volo a Tripoli è rapido, eppure svela un paesaggio lontano, estremamente lontano dal nostro. L’atrio è scarno. I controlli dei documenti e dei visti è attento e meticoloso. Non quello dei bagagli, che vengono fatti passare sotto i raggi senza particolare attenzione per oggetti metallici o personal computer. Ci diciamo che forse sono le bottiglie di vino e i liquori l’obiettivo dell’ispezione. Una bottiglia di vino può costarti sei mesi di prigionia in base alle vigenti leggi. Una bottiglia di vino sembra che sia venduta al mercato nero ad oltre cento euro. Ci si abitua a tutto, anche alle birre analcoliche.

Esci dall’aeroporto e ti abbaglia un misto di sole e di riflessi sabbiosi. Tutto è color ocra o celeste. L’aria è dolcissima, soprattutto se vieni dalla rigidità invernale del continente europeo. Gli occhi cercano idiomi familiari, ma non ve n’è traccia. Giganteschi cartelloni pubblicizzano la Coca Cola con caratteri indecifrabili. Qua e là la figura di Gheddafi campeggia dall’alto quale benedizione per il viaggiatore in arrivo o saluto per chi lascia il Paese. Non esistono cartelli in inglese o in altre lingue. Solo l’intuito ti può essere d’aiuto.

Mohammed, il tassista che ci è venuto a prendere, è un giovane ragazzo al servizio di un piccolo proprietario che gestisce due o tre taxi. Per 20 euro ti conduce a Tripoli e con molto orgoglio ti regala una bottiglietta d’acqua minerale come servizio bar per il viaggio. La conversazione non tarda ad avviarsi. Mohammed conosce un po’ l’inglese e ci ripete più volte Welcome, Welcome. Con l’italiano è meno pratico, ma ci dice che alcune espressioni sono di uso comune (stranamente, molte legate alle automobili: cambio, sterzo, frizione), un retaggio del colonialismo italiano del passato. Ci racconta dei giovani libici che non trovano lavoro, ma anche dei molti giovani che non hanno voglia di lavorare. Così i medici o gli ingegneri vengono importati, perché è più comodo. Mentre i lavori più umili vengono lasciati agli stranieri, tunisini in primis. Lui è laureato – almeno così ci dice - ma guida il taxi.

Il paesaggio è arioso. Molte distese sterrate, piccole casupole di mattoni, molte diroccate chissà da quanto. Di tanto in tanto lungo il ciglio della strada, venditori ambulanti offrono la loro merce su un carretto. Bottiglie che paiono detersivi, ma anche bibite e caffé. Colpisce la quantità di cantieri edili aperti. Costruzioni destinate al popolo o immensi spazi finalizzati a centri commerciali moderni, che hanno però l’aspetto di cattedrali nel deserto tanto appaiono isolati dalle case, anche quelle ancora da costruire. Poi avvicinandoti a Tripoli l’edilizia si fa più fitta. Le costruzioni sono tutte simili e poco lasciano ad un’estetica architettonica. I negozi, l’uno in fila all’altro, si affacciano tutti sulla strada principale. Alle loro spalle soltanto viuzze che portano alle abitazioni. Dieci, quindici grattacieli svettano in lontananza. Alberghi internazionali e business center tentano uno sviluppo versa la modernità, però più di facciata che reale. Il tassista ci saluta cordialmente e alla richiesta di una ricevuta risponde con un cenno di attesa. Ce la consegnerà in un successivo tragitto già prenotato, presentandosi con un criptico biglietto blu dove l’unica cosa comprensibile è il numero 20 degli Euro che avevamo pagato.

Siamo sul lungomare. Il punto forse più bello di Tripoli. Le palme disposte in fila ai bordi della spiaggia. La piazza Verde con un accogliente bar al centro. La gente seduta ai tavolini apparentemente in attesa che passi il tempo che manca agli impegni della sera. L’obbligo lavorativo negli uffici termina generalmente attorno alle 14. Poi l’unico pasto della giornata. Quindi due ore di riposo prima del pigro rilassamento che dura fino alla sera. Qualcuno ha invece un secondo lavoro. Il tutto intervallato dalla recitazione delle preghiere, prevista 5 volte nella giornata con genuflessione nella direzione della moschea.

Non ci sottraiamo ad un giro di ricognizione della città, stringendoci su un furgoncino che ci è stato riservato. L’autista stavolta non parla, ma dimostra una pazienza certosina nel districarsi in un soffocante e caotico traffico di autovetture. La benzina come il pane non costa praticamente nulla. Il regime li considera beni basilari e si fa carico in modo assistenziale delle esigenze del popolo. Il basso costo del carburante (10 centesimi di euro al litro) fa sì che tutti si mettano in macchina, anche per passare il tempo. Passiamo, così, ore in coda percorrendo a passo d’uomo le strade della città. Sfilano quartieri in stile italiano e palazzi di impronta araba. Macchine ovunque e pedoni che attraversano all’improvviso quasi a tentare un suicidio. E’ il Paese con più incidenti mortali al mondo. La notizia non mi stupisce. Così come ci dicono che la locale prassi prevede che chi commette un omicidio guidando, viene arrestato dalla polizia, spesso per preservarlo dall’ira della famiglia della vittima: tre giorni di tempo per far valere una sorta di diritto di rivalsa che può culminare anche nell’uccisione dell’incauto autista o di un suo consanguineo.

Quasi tutte le strade non hanno nomi né numeri civici. Ciò fa sì che non esista un vero e proprio servizio postale a domicilio e che tale funzione sia assolta dalle caselle postali presso gli uffici di zona. L’invio di notizie e documenti è in parte garantito dalle connessioni internet, che tuttavia sono alquanto precarie e non sempre funzionanti.

Ci raccontano che talvolta se in un ufficio gli impiegati hanno necessità di una pausa lavorativa, non fanno altro che staccare la spina dalla corrente di nascosto dai clienti, simulando una caduta della connessione del sistema informatico e tutto si ferma. Sembra più una antipatica diceria, ma il dubbio resta. Così come varcando la soglia di una banca non può non stupire l’assembramento di gente al bancone che si accalca per prelevare i contanti, senza il supporto di sistemi automatici di gestione della fila né tanto meno problemi di privacy.

Ci raccontano che la polizia effettui frequenti controlli fermando le automobili lungo la strada. Una volta capita anche a noi. Ci spiegano che molto spesso una sacrosanta multa possa essere barattata con un una banconota infilata astutamente all’interno della patente, prima di consegnarla al poliziotto.

E’ un mondo semplice, molto istintivo e senza infrastrutture mentali, nel bene e nel male. E’ un mondo dove le leggi sono assai poche e molto basilari. Una società ancora articolata in tribù, nella quale le aggregazioni politiche non hanno motivo di esistere se non appunto in relazione all’appartenenza all’una o all’altra casta tribale.

Strano a dirsi però, è un Paese che naviga nel petrolio e quindi potenzialmente di una ricchezza notevole, anche perché soltanto il 20% dei giacimenti petroliferi presenti è oggetto di sfruttamento.

Effettuiamo una articolata ispezione della città in cerca di un edificio da affittare. Davanti ad ogni palazzo ci attendono il proprietario e l’agente immobiliare. Aprono la porta di accesso e notiamo che all’interno vive sempre un giovane abbastanza malmesso che svolge le funzioni di guardiano. Dorme su un materasso posto in terra. In un angolo è sempre presente un tappetino per la preghiera. Poco distante una bottiglia con l’acqua. Ci raccontano che il regime considera le case di proprietà di chi le abita. Il guardiano è anche lì per assicurare che nessuno possa occupare i locali disabitati e di conseguenza rivendicarne di fatto la proprietà.

In una delle case visitate, sta ad attenderci il vecchio proprietario, costretto sulla sedia a rotelle perché privo degli arti inferiori. Ci accoglie con orgoglio nella sua casa. Ci tiene a dare la mano, uno ad uno, a ciascuno di noi e resta in attesa del nostro ritorno dopo la visita all’interno per avere le nostre impressioni. Quanta storia ci deve essere in quel vecchio uomo che si avvia verso la conclusione della sua semplice vita!

Girando per la città colpisce poi la pressoché totale assenza di donne. Queste trascorrono per lo più il loro tempo a casa accudendo la famiglia. Se escono in strada, lo fanno ben coperte, con un immancabile velo a coprire il capo e lunghi abiti informi. Quando facciamo notare un gruppo di ragazze seduto ad uno dei tavolini di un bar con il capo scoperto, ci viene risposto che si tratta di prostitute, la cui usanza è appunto il trucco vistoso e l’assenza del velo. Nonostante si vedano poche donne, è curioso che la Medina, il vecchio bazar che occupa una vasta parte di Tripoli fino al mare, venda per lo più merce destinata alla clientela femminile. Abbigliamento, stoffe, bigiotteria, biancheria, ori, calzature. Tutto esposto in un caleidoscopio di colori e di sapori di antico. Che le donne mandino il proprio marito ad acquistare qualcosa per loro? Mah. Sarebbe da capire quando tutta quella merce possa essere piazzata a donne di cui invece non si vede traccia. Compriamo qualche souvenir. E il proprietario della bottega ci regala qualcosa. C’è molto affetto verso gli italiani, nonostante tutto.

A pranzo mangeremo tutti i giorni al Caffè Saraia. Un insieme di pochi tavolini in metallo, dispersi su uno spazio esageratamente grande per le esigenze del bar. Spiedini di carni, abbastanza piccanti, che sanno di abitudini alimentari antiche e semplici. Pur essendo gennaio l’asfalto è tiepido per il sole che risplende con convinzione.

Ricorderemo per sempre una cena a base di pesce al mercato lungo la strada che esce dalla città lungo il mare. Tante bancarelle l’una in fila all’altra con sopra il pesce in mostra. Alle spalle di tale esposizione, semplici trattorie che cucinano su grandi bracieri quanto scelto alla bancarella. Ancora una volta sapori di riti semplici, di gente semplice. Sono quei sapori del branzino, della ricciola, del dentice che porteremo via con noi per sempre, decollando alla fine del nostro viaggio dall’aeroporto di Tripoli, dopo un’infinita serie di timbri sulle carte d’imbarco e misteriose procedure burocratiche di controllo.

Non immaginavamo che di lì a pochi giorni quella Tripoli, quella Libia, sarebbero cambiate per sempre, inondate da fiumi di sangue eroico e stravolte dall’epica violenza del parto della nascitura Democrazia.

14.1.11

Il mio secondo libro

Oggi l'editore Serarcangeli mi ha consegnato la prima copia di "Al Lunedì i barbieri sono chiusi".
Quasi tre anni di attesa. E' come un bambino che è cresciuto, ed ora cammina da solo. Speriamo arrivi lontano.